Migliorare la brand reputation fa bene non solo al dipartimento vendite, ma anche a quello delle risorse umane. Il modo in cui la immagine del brand, e la sua reputazione, viene percepita dai suoi dipendenti e all’esterno, in effetti, è determinante per la sua capacità di attirare personale, anche in situazioni di crisi.

Monitorare la propria reputazione come datore di lavoro, e fare in modo che resti ottima, è importante del resto non solo nel processo di selezione vero e proprio. Un ambiente di lavoro tossico, o percepito come tale, incrementa infatti il turnover dei dipendenti e in generale penalizza la capacità di un’azienda di creare collaborazioni a lungo termine. Oltre a penalizzare la stessa produttività.

Al contrario, un buon ambiente di lavoro migliora l’efficienza in azienda, ne promuove meglio prodotti e servizi e aiuta a costruirne l’identità globale. I dipendenti infatti possono diventare testimonial del marchio, e più o meno consapevolmente consolidare un’immagine positiva dell’azienda in cui lavorano. In fase di recruitment, poi, le loro testimonianze sono referenze credibili e di prima mano.

Vediamo allora quanto è importante il reputation management, come guadagnare una solida reputazione e, in caso, come fare per migliorarla.

SOMMARIO

Un mercato del lavoro “candidate-driven”

Qualche anno fa, Harvard Business Review ha chiesto a un gruppo di esperti in selezione del personale qualche impressione sul mercato del lavoro. Tra gli altri dati, ne è emerso uno in particolare: per il 90% degli intervistati, il vero potere decisionale era in mano ai candidati più che ai datori di lavoro.

Per il campione interpellato, infatti, il mercato del lavoro era “candidate-driven”, ovvero guidato dai candidati. In altre parole, in un processo di selezione del personale non erano tanto i selezionatori a valutare se assumere o meno un candidato, quanto quest’ultimo a decidere.

In primo luogo se partecipare alla selezione, quindi se accettare l’offerta.

E questa selezione al contrario avveniva, e tuttora è così, spulciando le informazioni online sul datore di lavoro: i profili ufficiali, ma anche quelli dei dipendenti su LinkedIn, le conversazioni accese sui social, o le recensioni sulle bacheche specializzate in recruitment.

È passato qualche anno, c’è stata una grave crisi in mezzo, ma anche oggi si può almeno concordare che la selezione del personale è un processo a due vie: in un processo di recruitment, la scelta avviene da entrambe le parti. E questo è vero in particolare negli ambienti a più elevata specializzazione e carico di innovazione.

Un po’ dipende anche dal ricambio generazionale, per cui i più giovani sembrano particolarmente attenti a tematiche non direttamente legate al salario. Per esempio la responsabilità sociale delle aziende o il livello di inclusività negli uffici. Sia come sia, ancora oggi secondo uno studio il 69% dei potenziali candidati rifiuterà l’offerta di un’azienda con una pessima reputazione, anche se disoccupato.

La questione è certamente complessa. Anche le percentuali possono oscillare molto in funzione di diversi fattori, per esempio il settore o il grado di specializzazione richiesto. Certo però è che la maniera in cui viene percepita un’azienda influenza notevolmente i processi di selezione del personale, e non solo.

Vedi anche: Generazione Z: quale azienda per la nuova forza lavoro?
SU

Quanto è importante la brand reputation

Oltre il dipartimento HR, la corporate reputation è di vitale importanza per un’azienda. Al di là della qualità dei prodotti, dell’efficienza delle tecnologie, di un oggettivo vantaggio competitivo, la percezione degli altri può comunque giocare un ruolo enorme in positivo e, più spesso, in negativo.

E del resto basta ricordare qualche esempio di “epic failure”, mosse sbagliate che hanno provocato crisi reputazionali pesanti e danni anche a multinazionali affermate. Casi come quello di McDonald’s, costretta nei primi anni del 2000 a reagire alle accuse di proporre uno stile di alimentazione dannoso. O, in tempi più recenti, lo spot che costrinse Dolce&Gabbana a pubbliche scuse per rimediare a un danno di immagine devastante in un mercato prezioso come quello cinese.

In diversi casi, poi, questi incidenti di reputazione hanno come argomento la cultura aziendale e le condizioni di lavoro. Qui a stridere è il contrasto tra l’immagine che vuole comunicare di sé il brand e quella che è la realtà effettiva.

Qualcosa del genere è successo con Nike ed Apple, brand globali a lungo macchiati dall’accusa di terziarizzare la produzione in Paesi con scarso rispetto per i diritti dei lavoratori. In altri casi, marchi affermati hanno avuto pesanti danni di immagine quando si è scoperto che nei loro dipartimenti venivano imposti ritmi di lavoro estenuanti, si ricorreva al mobbing o si promuovevano pratiche misogine o discriminatorie.

Questi e altri incidenti continuano purtroppo ad accadere, e hanno un impatto notevole. Anche nei casi meno gravi ed eclatanti, del resto, una pessima reputazione fa male alle vendite, alla performance finanziaria dell’azienda, alle relazioni con la propria clientela ma anche al rapporto con i dipendenti attuali o potenziali.

Appositi servizi, come reputation.com o reputationrating.it, si occupano di misurare la reputazione aziendale esaminando le conversazioni e i dati che la riguardano, Anche nello specifico del recruitment, classifiche apposite valutano i migliori e i peggiori posti in cui lavorare.

Finire nella seconda lista non assicura niente di buono.

SU

La reputazione come datore di lavoro: Great Places to Work®

La reputazione aziendale può dunque essere uno strumento formidabile di promozione o una fonte inesauribile di grattacapi. Nello specifico del mondo del lavoro, essere considerati un pessimo datore di lavoro produce conseguenze negative a cascata, non solo all’ambito risorse umane.

Quali sono allora i fattori da considerare per monitorare la propria reputazione? Ci possiamo aiutare con un esempio concreto: Great Place to Work.

Come dice il nome, questa organizzazione multinazionale certifica le aziende più meritevoli come “ottimi posti in cui lavorare”. Lo fa valutando la cultura aziendale, le scelte in tema di gestione del personale e, soprattutto, il feedback dei dipendenti.

Come si può vedere, il salario e i temi più inerenti alla retribuzione non sono il vero nocciolo della questione. Nel questionario sottoposto ai dipendenti delle aziende scrutinate, infatti, vengono valutati 5 elementi chiave:

  • credibilità
  • rispetto
  • equità
  • orgoglio
  • coesione

Modello di valutazione della brand reputation come datore di lavoro secondo Great Place to Work

Valutazione della brand reputation secondo Great Place to Work [immagine dal sito ufficiale]

In base alle risposte, fornite in maniera anonima, si ottiene un’immagine affidabile del clima di lavoro in azienda, e del livello di coinvolgimento dei dipendenti.

Mettendo insieme i dati forniti dal management e il feedback dei dipendenti si può valutare meglio il rapporto tra l’azienda e i suoi collaboratori, confrontando le scelte fatte e le risposte ottenute. Ne viene fuori una classifica annuale, Paese per Paese, dei migliori “Great Places to Work”.

Come si può intuire, ottenere la certificazione e partecipare a queste rilevazioni è un ottimo modo per l’azienda di fare employer branding, cioè di attirare i talenti migliori. Non è difficile capire poi che questo tipo di comunicazione vale anche come promozione tout court. Un buon piazzamento in classifica, infatti, è un ottimo strumento di brand awareness, e aiuta a farsi conoscere.
SU

Migliorare la brand reputation

Oltre le classifiche e le certificazioni, si può tenere basso il rischio reputazionale in altri modi.

Il migliore resta sempre quello più concreto: diventare un ottimo posto in cui lavorare.

Anche perché le operazioni di facciata, di solito, vengono smascherate presto. Gli esempi di “social washing”, ovvero di dichiarazioni di intenti sulla responsabilità sociale cui non corrispondono i fatti, non mancano, purtroppo.

La cultura aziendale deve dunque avere un riscontro concreto nell’ambiente di lavoro. L’attenzione alle esigenze personali, la creazione di un clima positivo e stimolante, il sostegno a iniziative extralavorative, la valorizzazione delle diversità, l’ascolto attento dei feedback interni. Questi sono solo alcuni modi in cui un datore di lavoro può generare valore, contribuendo attivamente alla propria buona reputazione.

Se è così, saranno gli stessi dipendenti a testimoniarlo. Nei casi migliori, è lo stesso team a diventare brand ambassador, portando la propria esperienza concreta a sostegno di quanto afferma l’azienda. E questo si ripercuote anche in ciò che si dice dell’azienda.

Molte agenzie di recruitment online ospitano ormai delle sezioni di recensioni dei vari datori di lavoro: è facile immaginare che i potenziali candidati le consulteranno con molta attenzione prima di rispondere a un’offerta.

Oltre i servizi specifici, la credibilità di un’azienda riverbera anche nei discorsi online: chat, social media, commenti alle iniziative. Chi vuole migliorare la brand reputation deve allora monitorare con attenzione questi discorsi e dirigerli nella direzione auspicata. Un commento negativo di un ex dipendente può fare molti danni, ma può essere bilanciato da esperienze positive di dipendenti attuali.

Del resto, se tutto ciò che viene creato online in qualche modo resta lì, è anche vero che dati e notizie si avvicendano furiosamente e passano presto in secondo piano. Secondo uno studio, solo il 5% degli utenti scorre oltre la prima pagina dei risultati di Google.

Vedi anche: Quali professioni digitali per la digital transformation
SU

Conclusioni

Per concludere, il reputation management è importante anche per la gestione del personale. In particolare, le condizioni e il clima di lavoro sono un aspetto centrale dell’identità aziendale e come tali devono essere considerate.

La brand reputation conta dunque anche nei processi di recruitment. Impegnarsi per creare un clima positivo e coeso migliora non solo la produttività aziendale, ma anche la propria proposta di valore. Come abbiamo visto, molti candidati preferiscono un ambiente di lavoro piacevole a uno in cui guadagnano meglio ma soffrono stress o altri problemi. Del resto, tutti sanno quanto è difficile e frustrante dedicare ogni giorno 8 ore o più a un compito che si detesta.

Lavorare sulla brand reputation, in particolare sulla propria percezione come datore di lavoro, è allora un esercizio utile a tutti i livelli. Un buon sistema di monitoraggio è quello dei questionari di gradimento, che, analogamente a quelli post-vendita, possono valutare invece le condizioni di lavoro in azienda dal punto di vista dei dipendenti.

Oltre al feedback interno, la gestione della reputazione va rivolta anche all’esterno. Qui sono fondamentali non solo il sito web o la pagina LinkedIn dell’azienda, ma tutti i principali canali di comunicazione online. Presidiarli in maniera intelligente aiuta per prima cosa a capire qual è il sentiment prevalente nei propri confronti, quindi a proporre la propria visione.

E in questa visione giocano un ruolo importante i dipendenti: trovare il modo di presentarne il ruolo, il contributo, il profilo è un buon modo sia per coinvolgerlo maggiormente sia per costruire un’immagine forte all’esterno.

Per saperne di più: I valori e la cultura aziendale di Enter Software
SU